venerdì 17 gennaio 2014

Privatizzazioni e Debito Pubblico

Le privatizzazioni sono urgenti perché rappresentano una leva importante per diminuire la spesa pubblica e costituiscono la premessa per sviluppare i mercati finanziari e creare un azionariato diffuso, favorendo così una maggiore efficienza delle imprese private e libera scelta dei consumatori. Questa logica non è più solo una convinzione degli ambienti imprenditoriali, ma è accettata dai partiti politici che intendono realizzare i cambiamenti necessari al Paese. 

Purtroppo nel 2013 il debito pubblico dell’Italia ha superato i 2.000 miliardi di euro, di cui oltre 300 miliardi a breve termine (12 mesi). Negli ultimi anni il deficit crescente del debito pubblico ha creato la necessità di sempre maggiori prestiti e la situazione ad oggi è ormai ad alto rischio di deflazione. Qualora infatti i prezzi e i redditi continuassero a calare, il Governo sarebbe costretto a ridurre la spesa pubblica solo per pagare i crescenti debiti ed interessi.

Secondo i principi espressi dalla scuola Keynesiana, è bene aumentare il debito pubblico durante i periodi recessivi e di alta disoccupazione, al fine di compensare la scarsa domanda privata, perché le conseguenze dell’aumento del debito pubblico sarebbero di minore importanza rispetto al rischio di una grande depressione. Viceversa si dovrebbe diminuire il debito pubblico durante i periodi di crescita economica e piena occupazione. Come noto altre scuole di economia asseriscono invece che la recessione si può combattere diminuendo le tasse e la spesa pubblica. 
Teorie economiche a parte, la scarsa propensione alle privatizzazioni del nostro Governo fa presupporre che un ulteriore aumento della disoccupazione, conseguente ad eventuali privatizzazioni di società partecipate, possa portare a instabilità sociale e politica.

Si noti che in Italia il picco di privatizzazioni fu raggiunto nel periodo 1997-99, durante i governi Prodi e D’Alema, quando lo Stato incassò 67 miliardi di euro complessivamente, risultato che ha rappresentato solo il 55% delle totali privatizzazioni effettuate dal dopo guerra ad oggi. L’ultima importante operazione di privatizzazione risale al 2005 ed è stata la vendita da parte di ENEL della sua controllata Wind, l'operatore di telefonia mobile, al gruppo egiziano Weather Investments per un valore complessivo di 11 miliardi di euro (Fonte: Barometro delle Privatizzazioni (PB).)

Recentemente sono stati dismessi immobili per circa 560 milioni di euro, costituiti soprattutto da palazzi e caserme in aree ad alta intensità abitativa e carceri dismesse in note zone paesaggistiche vincolate. Viene il dubbio che queste non siano iniziative che fanno parte di una strategia a lungo termine, ma piuttosto misure di emergenza utili a coprire buchi di bilancio e rientrare nei limiti imposti nei trattati europei di Maastricht.

Ieri il Ministero del Tesoro ha pubblicato un censimento delle partecipazioni pubbliche, aggiornato al 2011, sia a livello nazionale che locale. Il risultato riguarda 7.340 società per azioni che complessivamente hanno perso oltre 2,2 miliardi in un anno. I Comuni hanno dichiarato 29.583 partecipazioni dirette e indirette, intrecciate tra loro su oltre 5.000 aziende, mentre le Province 2.679. Solo l’Automobil Club d’Italia ha partecipazioni in 153 imprese, mentre le università in 1.562 imprese. Tutti i settori sono interessati, dalle costruzioni alle utenze di energia, gas, rifiuti fino ai trasporti, dalle comunicazioni all’agricoltura e alla pesca, alle assicurazioni e al finanziario.
Un terzo circa di queste imprese riportano perdite di esercizio tali da azzerare i profitti delle altre e chiudere ad un risultato complessivo negativo, relativo alle loro quote, pari a oltre 2,2 miliardi di euro l’anno. Tra queste le peggiori sono 23 aziende che da sole superano 1,5 miliardi di perdita annuale. I nomi delle aziende partecipate non sono stati resi noti dal Tesoro, ma è evidente che questa situazione serve alle prebende della politica e a soddisfare i clientelismi locali (fonte: La Repubblica del 16/01/2014, pag.13).

E’ lecito chiedersi fino a quando le tasche degli italiani potranno sopportare l’aumento costante del debito pubblico.

Venuti meno gli ideali politici, radicalizzati con la guerra fredda e sgonfiati come un soufflé dopo la caduta del muro di Berlino, con la caduta del modello di economia comunista, la politica di questi anni è stata solo alla disperata ricerca del consenso elettorale, promettendo supporti economici ad un popolo materialista e in difficoltà oppure urlando denunce, con un approccio populista e volutamente volgare. 

Si sono promessi posti di lavoro, sgravi fiscali, opere utili alle comunità, una giustizia efficiente e qualsiasi altra cosa che possa essere percepita come un potenziale vantaggio sociale o personale. Il costo complessivo delle promesse della politica, stratificate nel tempo e quasi mai soddisfatte, è quindi immenso, eterogeneo e parcellizzato. Per questo motivo ritengo che le risorse rese disponibili da eventuali privatizzazioni sarebbero certamente utilizzate per soddisfare gli interessi particolari della politica, con il solo obbiettivo di raccogliere il numero maggiore possibile di voti.

In queste circostanze la spesa pubblica diventa quasi incomprimibile, mentre la diminuzione delle tasse non farebbe altro che aumentare il debito pubblico e compromettere gli accordi europei, con conseguenze politiche ed economiche difficili da valutare, di cui nessun partito politico al governo è stato finora disponibile a prendersi il rischio.

Per questo motivo, la strategia a cui tendere può essere solo quella di comprimere in modo deciso la spesa pubblica, iniziando da quella superflua o improduttiva, sottraendo allo Stato e all’amministrazione pubblica la proprietà e la gestione di un infinito intreccio di interessi in aziende e di un mal gestito patrimonio immobiliare. Nel contempo la politica dovrebbe riconquistare il primato della leadership e dei valori etici, investendo nell’istruzione e nello sviluppo delle imprese, punendo con severità politici e amministratori che si faranno ancora sorprendere con le mani nella marmellata.

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